Campione italiano
Campionato italiano Triathlon medio - Lovere 2018
L’originale di questo articolo è sulla pagina Facebook dell’autore, Thomas Del Duca, che lo ha gentilmente concesso a VunDuTri per consentirne la diffusione e la conservazione.
Non l’ho capito di preciso, è una specie di nulla in mezzo al nulla. Non è il posto che dici “Uh che fico quest’estate ci torno”, ma ha il merito di aver organizzato, nell’anno Covid, un Ironman 70.3 a cui io e sei miei compari, affamati di gare come lupi, ci siamo subito iscritti.
Io in questi mesi difficili mi sono sempre allenato, ma con volumi e modalità adatti a gare corte, quindi il dubbio di aver fatto una cazzata questa volta, invece che al chilometro cinquanta della frazione bici, l’ho avuto un mese prima!
Partiti in tre, ci siamo trovati di buon mattino di venerdì per partire, freschi e riposati. Concluderemo questa avventura svenuti su un prato, ma ancora in vita. Il divertimento di questa trasferta, per merito dei miei compagni, è stato tanto (nello specifico ho speso praticamente un cazzo e non ho mai guidato), ma poi c’è la gara e lì siamo soli.
Alla partenza sembra di stare al gioco aperitivo di un villaggio turistico:
“Mettetevi in fila per numero di cuffia!”
“I dispari a destra e i pari a sinistra!”
“Ora tutti con le mani alzate”
Alla fine siamo tutti in fila, senza aver fatto pipì, con la muta e la mascherina sotto al sole. La gara comincia, ci si tuffa a coppie, quindi mentre i primi già nuotano io devo aspettare che venga smaltito il lungo serpentone di persone davanti a me. Sono già sudato e sto in mezzo a un gruppo di romagnoli che fanno battute tristissime sulle donne triatlete (che come spesso succede devono aspettare e partire per ultime, per poi correre quando fa più caldo).
Accanto a me c’è un gigante, calcolo che con una sua bracciata può staccarmi la testa, quindi, quando finalmente arriva il mio turno di colpo lo supero e mi tuffo prima di lui. Piombo nell’acqua fresca e un istante dopo BOOOMMM, arriva lui. Non mi prende per miracolo, ma genera un’onda che mi spara avanti e così comincia la gara.
L’acqua è strana, è pulita e non puzza di nafta come quando fai le gare nel Lazio, però e scura e poco ospitale. Parto con il mio stile libero, annullando in poche bracciate i concetti faticosamente appresi nelle lezioni di nuoto, ma comunque procedo bene, non c’è ressa. Superate le prime due boe bisogna tornare verso la partenza. Io alzo la testa e vedo una cosa enorme rossa, che mi sembra troppo grande per essere una boa, e una boa normale gialla, che però sta in un punto che non c’entra un cazzo.
Il fatto di non pulire gli occhialini dal 2018 non aiuta nel chiarirmi le idee e decido di seguire una linea immaginaria tra le due boe. Prendo a riferimento un tizio con la muta con le maniche arancioni che si vedono bene e lo seguo. Dopo poco mi rendo conto di aver scelto il peggior nuotatore di tutti, ogni volta che alzo la testa lo vedo in un punto diverso, praticamente va a zig zag.
Decido di puntare la rossa che alla fine è quella giusta, la supero e parto con il secondo giro. Sfioro il piede di un tizio davanti a me e questo subito scalcia, e lo fa per colpire forte, mi vedo il piede a un centimetro dalla faccia. Perdo il lume della ragione, lo affianco e gli affondo il gomito sul fianco. Si ferma all’istante e sento che si incazza, però riparto e mi lascio lui alle spalle e la gomitata nell’archivio dei miei peccati.
Stavolta ho memorizzato il percorso e con il mio stile “in morte di un giovane istruttore di nuoto” finisco la frazione. L’atleta davanti a me avanza lento e zoppicante e il fatto di essere uscito dall’acqua dopo un tizio che a malapena deambula mi fa, in un primo momento, dubitare della qualità della mia prestazione.
Sul Garmin leggo invece un dignitoso 33′ e l’arrivo in zona cambio con ancora tante bici riporta la mia autostima a livelli piacevoli (il fatto di aver volutamente dato le spalle alla parte dove alloggiavano le bici degli atleti più forti con i pettorali più bassi del mio ha decisamente contribuito ed è un trucchetto che vi consiglio).
Parto in bici. I primi chilometri sono velocissimi. Nonostante i watt siano bassi, la velocità è alta. Probabilmente il vento mi sta aiutando e il fatto che i due ciclisti davanti a me, alla stessa velocità, parlino agevolmente tra loro mi conferma che le mie doti ciclistiche non sono migliorate nella notte.
La strada non è bellissima, spesso si stringe. Siamo ancora in pochi: è il segnale che il nuoto è andato bene, ma anche il triste preludio alle decine di sorpassi che subirò quando i nuotatori rimasti indietro saliranno in bici. Ho rimesso le prolunghe da due settimane e non ho fatto la posizione e mi rendo conto di aver fatto una stronzata. Sostanzialmente se mi metto sulle prolunghe sfioro appena la sella e per pedalare e soprattutto tenere in equilibrio la bici devo fare forza sulle chiappe e sui muscoli posteriori della coscia che poi mi serviranno per correre. In posizione normale va meglio, ma la sella mi fa stare molto dritto, praticamente la morte dell’aerodinamica. Decido di alternare le posizioni, praticamente le chiappe diventano protagoniste, ma sono comunque concentrato e combattivo.
Mangio le barrette e sto bevendo come un cammello quando tra i vari che mi superano si presenta un rappresentante della categoria più odiosa del triathlon, i parlatori.
I parlatori sono triatleti, di solito non particolarmente performanti, accomunati da tre caratteristiche principali:
Il mio parla fortunatamente un dialetto laziale, ma comunque riesco a ignorarlo grazie a una peculiarità che scopro possiede il mio casco: se abbasso la testa guardando l’asfalto nelle fessure entra il vento, e il rumore copre tutto il resto. Stanco di essere ignorato il mio amico si stacca e io posso terminare la mia salita.
Sono andato su bene, in piedi sui pedali con rapporto agile, ma alla fine di ogni salita comincia la discesa. Qui come da tradizione subisco una decina di sorpassi, rivedo persone superate cinque chilometri prima, però adesso la strada ha pendenza favorevole e si fatica poco. Mi ero ripromesso di fare una gara di attacco, invece continuo a distrarmi e a fare catenaccio.
I watt che produco non basterebbero per la lucina del frigo
Ma fortunatamente il percorso ora è facile e scorrevole. Mi passa un tizio che va come un missile, dietro di lui un gruppetto di imbroglioni sta in scia, l’ultimo però, incredibilmente, si stacca e mi affianca, io mi affretto ad abbassare la testa e isolarmi con il vento, ma prima di riuscirsi sento, in perfetta parlata da borgata romana “Hai visti sti pezzi de m…”.
In effetti di gruppi in scia ne ho visti tanti, veramente troppi, peccato.
Finisco il primo dei due giri. Sono passati 80 minuti e sto gareggiando da un paio d’ore. Mi faccio un po’ di conti e potrei riuscire a stare sotto le 5h. Cerco di spingere un po’ sui pedali, faccio bene il primo tratto, non sono veloce, ma adesso mi sento più in gara. In un punto con la strada larga cerco di stare sulle prolunghe per guadagnare qualcosa, però sto scomodissimo e respiro pure male. Tengo duro qualche chilometro poi decido di rifiatare, metto un rapporto agile e mi tiro su, rallento, forse un po’ troppo. Dalla campagna spunta una ragazza al cellulare, mi guarda e attraversa la strada.
Quando sei in bici e ti attraversano in faccia è un brutto segno, vuol dire che stai andando veramente piano.
Non faccio in tempo a reagire che arrivo di nuovo alla salita. Raggiungo un paio di tizi paonazzi e insieme saliamo a un passo lento, ma costante: sembra più una processione di paese con il Santo in testa che una gara, però arriviamo su. Ho molta sete, ma l’acqua scarseggia nonostante la doppia borraccia. Decido per il razionamento delle risorse e quindi non tocco la borraccia nonostante in bocca abbia il fuoco.
Comincio la corsa. Guardo l’orologio e sono passate circa tre ore e quindici minuti. Scopro di avere incredibilmente un patrimonio di un’ora e quarantacinque minuti per fare una mezza maratona e concludere la gara sotto le cinque ore, e mi carico ripetendomi di essere un podista da 1h19′ di personale.
Sento il mio obiettivo già tra le mani.
Parto alla carica ma per il momento il mio unico pensiero è raggiungere una bottiglia d’acqua. Fa caldo e sto morendo di sete, ma non vedo il banco del ristoro e comincio a smadonnare.
Affronto la discesa nelle seguenti condizioni: ho la bocca secca come il deserto, mi fa male il culo, il body è incrostato di sale, devo fare ancora più di venti chilometri e poi correre una mezza maratona. Non è un bel momento e inevitabilmente un altro parlatore attacca bottone, il dialetto stavolta non lo capisco proprio, non sono sicuro nemmeno che sia italiano. Provo a staccarlo e lui mi grida disperatamente di salutargli il mio compagno di squadra Walter. La fuga mi ridà slancio, decido di fare gli ultimi chilometri tutti sulle prolunghe. Finalmente vado veloce, il culo sembra possa staccarsi da un momento all’altro, ma stavolta non mollo e la bici finalmente finisce.
Provo a scendere al volo, come accenno il movimento le mie gambe mi avvisano con decisione di non provarci nemmeno, e mi esibisco in una delle discese dalla bici più brutte della storia del Triathlon, facendo, tra l’altro, quasi cadere il ciclista dietro di me.
Inizia un tratto sul brecciolino, che odio, poi uno su delle specie di pietre sconnesse inzeppate nella terra, che odio ancora di più. Terminato questo tratto c’è l’acqua. Afferro due bottiglie e una la ingurgito in un sorso e con l’altra mi faccio la doccia. Rinasco.
Ho perso tempo al ristoro e devo recuperare. Mi metto di buon passo. Viaggio alla fiabesca velocità di 4’30” al km. Arrivo al quinto. Ho un sensazione strana, le gambe stanno bene (il culo meno), ma ho di nuovo sete, come se non avessi toccato acqua.
Vedo il secondo ristoro, un addetta severissima come mi vede rallentare comincia a strillare come un arpia di buttare i rifiuti nel secchio, io tracanno un gel e, di nuovo, una bottiglietta intera. Rianimato riparto, finisco il primo di tre giri di 7 km. Guardo l’orologio, coi tempi ci sono, ma devo gestire con attenzione ogni chilometro.
Inizio il secondo giro veloce, ma non sto bene, ho male su un fianco, lo sento in realtà da un po’, ma era debole e sono riuscito a ignorarlo. Il pezzo con il brecciolino è durissimo, improvvisamente le gambe sono pesantissime. Vicino al ristoro decido di camminare, il fianco ora mi sta facendo male, faccio pipì praticamente in mezzo alla via, e prendo altre due bottigliette d’acqua.
Riesco a ripartire, mi riesco a riportare sui 5’00” di passo, ma la perdita di tempo è stata sanguinosa, per finire nei tempi che voglio dovrei fare un’impresa, il traguardo è lontanissimo. Con grande fatica affronto il tratto più sconnesso e isolato del percorso, si torna sull’asfalto, c’è una leggera salita, mi spezza letteralmente le gambe, sto quasi per rimettermi a camminare e, anche ora, nel momento peggiore, inevitabile, mi affianca un tizio che comincia a parlare: “Che fatica..ho fatto questo..quello…” e Vaffanculo, riparto.
Decido che ci voglio provare, rifaccio i conti, ce la posso fare!
Ho le stesse possibilità che ha il Lecce di vincere lo scudetto, ma ci voglio provare lo stesso.
Tre chilometri vanno bene, il quarto stringo i denti, poi un cambio di direzione per superare un tizio e le gambe si piantano. La partita finisce qui.
Mi fermo a bere con calma e per l’ennesima volta riparto, ma con passo più tranquillo, al diciasettesimo, quando praticavo solo la corsa, era il momento in cui cercavo il cambio di passo, ora sono finito. Fino al diciannovesimo è un tempo infinito, quella strada calda e mezza sgangherata non finisce più.
Un tizio passa e mi chiede pure lui di salutargli Walter, poi torna il chiacchierone di prima e ricomincia la litania, stavolta devo portarmelo, mi rifermo di nuovo, nonostante manchino solo 1500 metri, ma ormai è inutile forzare, faccio al piccolo trotto l’ultimo chilometro, gambe e culo e stomaco sono rivoltati, ho di nuovo sete.
Poi il traguardo finalmente arriva ed è bellissimo.
Finisco distrutto ma contento, 5h03′, anche questa è fatta, ho sofferto, ma non ho mollato e ora sto con gli amici sull’erba e ho già voglia di riprovarci.
Thomas Del Duca