LUT 120k 2023: ricordi di un'impresa doloMitica

LUT 120k 2023: ricordi di un'impresa doloMitica

Lavaredo Ultra Trail 120 Km

Nonno, a me mi piace correre… tu correvi, vero?

Non si dice “a me mi”… comunque sì, ho corso tanto

Quanto?

Ho corso per tanti anni, ho fatto tante gare, sempre più lunghe.

Mi racconti di quando hai fatto la tua corsa più lunga di tutte? 

Oh, guarda, è stato tanto tempo fa, nell’estate del 2023, tu non eri ancora nato!

Taaaanti anni fa: allora eri giovane.

Bhè, oddio, avevo già 48 anni, ed è stata una corsa in montagna.

Ma la mamma dice che in montagna non si corre!

E invece correre in montagna è bellissimo!

Davvero?

Sì, prova: corri in salita fino a lassù e poi torna di corsa fino a quaggiù

Che fatica, nonno!
In salita non riesco a correre, però in discesa sono andato velocissimo, anche se avevo un po’ di paura.

Eh, come ti capisco. Anche io in salita non riuscivo a correre, ma mi piaceva provare ad andare forte in discesa.

E la corsa più lunga di tutte quanto era lunga?

Non era una corsa, era LA corsa: si chiama LUT 120K, che sono le iniziali di Lavaredo Ultra Trail e vuol dire che è lunga 120 chilometri.

120 chilometri? Così tanti?

In realtà erano 122.

Ah. E quanti giorni ci vogliono per fare tutti quei chilometri?

Bhè dipende: in gara il primo ci ha messo 12 ore circa, l’ultimo 30.

Poco! E tu?

Io ci misi 22 ore 17 minuti e 30 secondi, me lo ricordo ancora perfettamente.

E ti ricordi altre cose?

Alcuni ricordi sono nitidi, altri un po’ sfocati, ma le sensazioni le ho tutte in mente.

Dai, raccontami… Dov’era? Quanti eravate? Come sapevi dove andare? Ti fermavi ogni tanto? Ma mangiavi di corsa? Hai dormito? E hai fatto la pipì?

Hei, piano, piano. Quante domande! Se sei così curioso, allora ti racconto.

Dettagli Gara
Tempo totale
22:17:30
Dislivello
5822
Pettorale
1136
Posizione
559
Pos. Categoria
93

Per partecipare alla LUT si deve fare l’iscrizione molti mesi prima della gara, ad ottobre, e sperare di essere estratti a sorte.

Un po’ come la lotteria?

Esatto, non tutti vincono. Ma c’è di più: per poter accedere a questa iscrizione ci si doveva qualificare facendo gare più corte per dimostrare di essere pronti ad affrontare quelle più lunghe.

Ah. E tu quali hai fatto?

Io ci misi due anni per fare le gare necessarie, ad esempio l’Orobie Skyraid, la mia prima “Ultra”, poi la UTLO55, la CFT50, l’UltraK 70

Ma cosa vuol dire “ultra”?

Per ultra si intende una corsa più lunga di una maratona, quindi più di 42 chilometri.

E ti eri iscritto da solo?

Io facevo parte di una squadra di corsa in montagna, 100% Animatrail. Il mio vecchio amico Simone mi propose di iscrivermi e alla fine ci hanno estratti tutti: Simone, Silvia, Myriam, Lele, Lia, Mauro, Fabio, Sària, Bicio, Giuseppe, Carlo, Roger, Mariya. E poi c’erano tanti altri della squadra iscritti alle gare con distanze minori… insomma un gran bel gruppo!

Ma avete corso tutti insieme, vicini?

No, era impossibile!

Perché?

Perché ognuno ha il proprio “passo”: in pratica ogni persona corre ad una velocità diversa e poi perché alla partenza, dopo una foto tutti insieme, ci siamo subito persi di vista in mezzo alla folla.

C’era tanta gente?

Eravamo tantissimi concorrenti! Oltre 1500! La zona di Cortina davanti all’arco della partenza era gremita di atleti pronti a correre e le strade del paese erano costeggiate di tanto pubblico per incitare i partecipanti al passaggio.

C’è stato il conto alla rovescia e a che ora è stata la partenza?

Non mi ricordo di un conto alla rovescia, ma ricordo una musica epica di Ennio Morricone e sono venuti i brividi a tutti!

Perché faceva freddo?

Ma no, perché era emozionante. Però un po’ di freddo ce l’avevo, visto che erano le 11 di sera.

Di sera? Ma avete iniziato a correre di notte? Col buio? E come facevate a vedere la strada?

Tutti avevamo una lampada sulla testa, che si chiama “frontale”, e serve per illuminare la strada davanti. La partenza della LUT è stata alle 23 in punto e un fiume di trail runner si è cominciato a muovere lungo la via principale di Cortina D’Ampezzo per dirigersi nei boschi e cominciare a salire al buio su quelle mitiche montagne, che si chiamano Dolomiti.

Però se c’era buio non le hai nemmeno viste!

In effetti nelle prime ore di gara non si poteva vedere il panorama, però ricordo alcune bellissime scene: ad esempio un lunghissimo serpente di lucine che saliva a perdita d’occhio.

Ma erano tutti davanti a te? Eri l’ultimo?

No, non ero proprio ultimo come era successo nella mia gara precedente, ma davanti a me ci saranno stati almeno mille concorrenti perché ero partito in fondo, ma pian piano ho cominciato a recuperare e a superarne un po’.

E hai superato anche i tuoi amici?

Bhè, quelli più forti e veloci no, altri sì. Ad esempio ho raggiunto il mio amico Simone dopo qualche chilometro, poi un po’ alla volta anche Mauro, Silvia, Bicio e Lia. E anche Cristiano dei Cinghiali del Lario.

E nessuno ti superava?

Oh sì, tanti: era un continuo via vai. C’è chi va forte in salita e supera, ma poi in discesa ha paura e viene superato. E così che dopo un po’ si formano i gruppetti di concorrenti che vanno allo stesso passo.

Anche tu hai corso con qualcuno?

Sì! Non ricordo a che chilometro mi ha raggiunto Giuseppe e abbiamo cominciato a correre insieme. Magari in salita andava un po’ più forte di me, ma poi nei pezzi in piano o in discesa lo raggiungevo e passavo davanti. E dopo un po’ di tira e molla, senza nemmeno dircelo, avevamo deciso che avremmo corso insieme, aspettandoci a vicenda.

Dove vi dovevate aspettare?

Ai ristori ad esempio

C’erano i ristoranti?

Non proprio! Chi organizza le gare di corsa deve predisporre dei punti dove potersi fermare a mangiare e a bere qualcosa che si chiamano “ristori”, non “ristoranti”.

Chissà che fame! Cosa si mangia ai ristori?

Al primo ristoro, dopo 18 chilometri dalla partenza, non mangiai niente perché mi ricordo che c’era una calca di gente che faceva la fila per farsi dare qualcosa. Io riuscii a prendere solo dei pezzetti di cioccolato e a bere della Coca: avevo tanta sete!

Non avevi bevuto niente prima?

Sì che avevo bevuto! Nello zainetto da trail è obbligatorio portarsi una riserva d’acqua di almeno un litro e avevo già fatto fuori una borraccia.

Chissà quanta pipì!

Eh sì! Mi fermai un po’ di volte per fare pipì nel bosco durante tutta la gara.

E la cacca?

Quello te lo racconto dopo.

Però ti racconto di quando ho visto l’alba che è più emozionante.
Dopo cinque ore di corsa completamente avvolti dal buio, riuscendo a vedere solo i sentieri illuminati dalla frontale, il cielo da nero cominciò a diventare blu scuro e pian piano sempre più chiaro rivelando le Dolomiti in tutta la loro bellezza: enormi montagne rocciose, foreste sempreverdi e anche piccoli laghi che riflettevano tutto il panorama.

Wow! Anche i laghi!

Sì, il primo era il lago di Misurina, dove era posizionato il terzo ristoro, al 42° chilometro.

Come fai a ricordartelo?

Me lo ricordo perché era uno dei punti “importanti”. Innanzitutto era esattamente alla distanza di una maratona e da lì in poi sarebbe stata “ultra”, poi perché era alla base della salita che ci avrebbe condotto verso il punto più iconico di tutta la gara: le Tre Cime di Lavaredo!

Quelle del logo che hai sulla maglietta!

Ci hai messo tanto a raggiungere le tre cime? E poi siete saliti in cima?

No, gli si girava intorno, senza salire in cima: era una gara di corsa in montagna non di arrampicata. Comunque dal lago di Misurina ci misi circa 2 ore e in quel tratto conobbi un ragazzo un po’ matto.

Chi?

Si chiamava Matteo, pettorale 805.

Come ti ricordi anche questo?

Eravamo su una salita, tutti in fila e lui era davanti a me con il pettorale girato verso dietro, sul sedere, quindi lo vedevo bene. Ad un certo punto, esce dalla fila, si sposta sulla destra e sento un boato!

Aveva sparato una scoreggia fortissima!

Ahaha!

Eh bhè, era anche stato gentile a spostarsi. Io invece usavo un’altra tecnica: mi facevo superare per rimanere ultimo della fila e poterle sganciare senza problemi.

Ahaha, ma nonno!

Non hai idea di che mal di pancia, con tutto quel brodino caldo al ristoro. E mi scappava ancora la pipì: sulla salita vidi un bel punto adatto, ma Matteo, che era ancora davanti a me, ebbe la stessa idea. “Hey, volevo andarci io lì a far pipì” gli dissi scherzando; “Troppo tardi, ti ho fregato!” rispose stando al gioco. Capii subito che era un tipo simpatico.

E la tua pipì?

Trovai un posto ancora più bello poco più avanti e quando Matteo passò vicino mi disse: “Ti ho rubato il posto e non sono nemmeno riuscito a farla!”
In queste gare lunghe si devono fare i conti con tante cose, anche con i problemi di pipì e cacca. E di digestione. A dimostrazione di questi pensieri dopo un po’ sentii un bel rutto.
Era stato Matteo.

Ma allora!

Avevamo cominciato a chiacchierare e a diventare amici. “Ci siamo conosciuti grazie ad una scoreggia, ad una pisciata e ad un rutto” gli dissi. “Sarà una lunga amicizia allora!”
Gli raccontai che per me la LUT era la gara obiettivo dell’anno, mentre per lui solo una di preparazione per il TOR de Gèants, una gara di 330 chilometri in Val d’Aosta.

330 chilometri?!

Sì, con 24 mila metri di dislivello. Una follia. Che in confronto la LUT è una passeggiata. Comunque tra una chiacchiera e una puzzetta arrivammo al cospetto di una formazione rocciosa enorme: il retro delle tre cime; ora si doveva solo girarci attorno per poterle ammirare in tutta la loro magica bellezza. E il destino volle che quando ci arrivai ero proprio con Giuseppe e Matteo, ormai diventati i miei compagni di viaggio.

Compagni di corsa, vorrai dire…

Sì, ma anche di viaggio, perché una gara così diventa una specie di viaggio. E servono delle foto ricordo, quindi ci fermammo per farci qualche scatto con le tre cime alle spalle per immortalare il nostro passaggio.

Mi fai vedere quelle foto?

Sì, le ho raccolte in un album, guarda.

Belle! Ehi, ma chi è quel tipo che va dalla parte opposta?

Chi? Il giapponese? Lascia perdere… c’era una macchina fotografica appostata per scattare automaticamente una foto perfetta ad ogni concorrente, con le tre cime centrate sullo sfondo: noi ce ne eravamo accorti e decidemmo di passare di corsa uno alla volta, prima Giuseppe, poi io e quindi Matteo.
Quando passai io incrociai l’unico turista giapponese a spasso per la montagna, proprio in quel punto!

Ma no!

E vabbè, mica potevo tornare indietro per fare un’altra foto. La gara era ancora lunga, non eravamo neanche a metà: la fatica cominciava a farsi sentire e il quarto ristoro ancora molto lontano.

Perché parli sempre dei ristori?

Perché era il mio modo per affrontare le gare: dividerle in pezzi e concentrare le energie fisiche e mentali per arrivare al ristoro successivo. Siccome la LUT era molto lunga e non potevo memorizzare tutto, avevo appuntato le informazioni utili sul retro del mio pettorale: nomi dei punti dove ci sarebbero stati i ristori, con distanza e dislivello progressivo e distanze intermedie tra un ristoro e l’altro.
E il quarto ristoro era uno “speciale”.

Come speciale?

Il ristoro di Cimabanche era quello che in gergo si chiama “base vita”: infatti oltre a poter mangiare e bere in una base vita si può ritirare il proprio sacchetto con vestiti puliti e ci si può cambiare. E chi è molto stanco può anche fermarsi per fare un pisolino.

E tu ti sei fermato a dormire?

No, non avevo sonno: quando arrivai dopo oltre 10 ore di gara e 3000 metri di dislivello avevo solo tanta fame, sete e stanchezza fisica perché la base vita era distante ben 25 chilometri dal ristoro precedente e l’ultimo pezzo ricordo che non finiva mai e lo feci da solo.

 

Quando arrivai a Cimabanche c’era un sacco di gente tra partecipanti e amici o parenti. Io non avevo nessuno ad aspettarmi e avevo anche perso di vista Giuseppe e Matteo. Però appena arrivato feci in tempo a incontrare Myriam che non vedevo dalla partenza: caspita come aveva corso bene. Giusto il tempo di un saluto e un “in bocca al lupo”.

E cosa hai fatto da solo?

Prima ho riempito le borracce con acqua fresca poi cercai della coca cola da trangugiare e qualcosa da mangiare: il solito brodino con la pastina e un panino col salame.
Poi recuperai la mia sacca e mi sdraiai sul prato prendendomi tutto il tempo necessario per recuperare le energie. Siccome avevo bisogno di conforto mandai un po’ di messaggi ai miei amici che sapevo mi stavano seguendo sull’app di tracking e provai a chiamare tua nonna che incredibilmente mi rispose subito e mi incitò.

Ma alla fine ti sei cambiato i vestiti?

Solo la maglietta. Anche se avevo un cambio completo decisi di tenere tutto il resto così. Ricordo che però tolsi scarpe e calze per controllare lo stato dei piedi: non erano messi male, quindi spalmai solo un po’ di crema anti-sfregamento e indossai di nuovo calze e scarpe ed ero pronto ad affrontare la seconda metà gara.

Il grosso era fatto, quindi.

Così pensavo. E invece no. Mi era stato detto che, rispetto a tante altre gare, la LUT fosse meno tecnica e più “corribile”, il ché era vero per la prima metà, ma non per la seconda.

È stata davvero tanto dura?

Molto, ma per vari aspetti. La stanchezza fisica cominciava a farsi sentire, così come il caldo: man mano che passavano le ore il sole diventava sempre più alto e forte. Per mia fortuna appena lasciato la base vita avevo ritrovato Giuseppe così da poter continuare insieme: poiché lui l’anno prima aveva fatto la LUT 80 che, da lì in poi, si correva sullo stesso tracciato, sapeva cosa ci avrebbe aspettato e dispensò consigli su come affrontare i vari tratti.

Ad esempio?

Al ristoro Malga Stua, intorno al 77° chilometro, mi suggerì di mangiare e bere in abbondanza per attraversare con la giusta carica la temuta Val Travenanzes e i lunghissimi 20 chilometri prima del ristoro di Col Gallina al 97°. Mi mise in guardia sul caldo e sulla sete che avremmo patito e sulla capacità di quel tratto di fiaccare lo spirito e la volontà.

E come andò? 

Ho ricordi vaghi, so solo che ci vollero quasi cinque ore per quei maledetti 20 chilometri.
Ricordo che riempivamo le borracce nei torrenti bevendone l’acqua fresca e ricordo che in alcuni tratti si vedeva il sentiero che sembrava raggiungere la fine della vallata, ma quella fine non arrivava mai, in un continuo su e giù…

Sembra un incubo, nonno.

L’unico ricordo positivo che ho è quando passai l’83° chilometro e dissi scherzando a Giuseppe: “Sto entrando in un nuovo quadro del videogioco: non ho mai fatto così tanta strada prima d’ora!”. “Io ci sono entrato 3 chilometri fa!” rispose lui.

Quando raggiungemmo il ristoro di Col Gallina alle quattro del pomeriggio eravamo al limite, ma sentivo dentro di me che ce l’avrei fatta: in fondo mancavano “solo” 25 chilometri, il grosso era davvero fatto.

E mi venne da piangere

Nonno, hai pianto?

Sì, e siccome mi serviva un po’ di conforto scrissi a Gisella che fu pronta ad offrirmi le parole giuste per una ricarica mentale e le mie stesse lacrime mi diedero forza. O forse fu l’ennesimo brodino caldo che consumai seduto per terra, consapevole che avrei fatto più fatica a rialzarmi, ma avevo bisogno di stendere le gambe.
Giuseppe invece stava fronteggiando una crisi che faceva avanzare inesorabilmente l’ombra del ritiro. “Simo, non ce la faccio più. Sto pensando di ritirarmi”.

Ma come? E si è ritirato?

“Non se ne parla nemmeno” pensai. Sapevo di aver bisogno di lui e lui ora aveva bisogno di me per ritrovare fiducia: “Prenditi il tempo che ti serve. Ma siamo arrivati fin qui e la possiamo portare a casa”. “Non riesco a mangiare niente”. “Prova con la macedonia”.

Siete riusciti a ripartire quindi?

Noi sì, ma tanti concorrenti arrivarono a Col Gallina senza più forze, incapaci di mangiare o di muovere le gambe, così dovettero abbandonare la gara. Conoscevo la frustrazione del ritiro e la sensazione di fallimento,

Ma la nostra LUT non poteva finire lì.

 

Dopo una sosta di quasi mezz’ora ripartimmo con destinazione Passo Giau, su sentieri spesso molto tecnici e poco corribili.

E mi scappava la cacca.

Ah, mi avevi detto che me ne avresti parlato!

In realtà mi scappava da un bel po’, ma non volevo fermarmi in un bosco o in un prato e l’alternativa erano i bagni chimici installati qualche decina di metri prima di entrare nei ristori che puntualmente non vedevo e non avevo voglia di tornare indietro. Per cui la stavo tenendo da parecchio con conseguente mal di pancia.

Quindi non l’hai fatta?

Riuscii a tenerla fino all’ultimo ristoro, Croda da Lago, dove ho potuto usare il bagno del rifugio da cui uscii rinato e alleggerito. E mancavano solo 10 chilometri all’arrivo.

Pochissimi!

Avevo dichiarato a Giuseppe che il mio obiettivo era tagliare il traguardo prima che facesse buio di nuovo. Facemmo due conti: erano le otto di sera, avevamo corso 21 ore percorrendo 112 chilometri e 5700 metri di dislivello positivo totale. “Se vogliamo centrare l’obiettivo dobbiamo mettere le ali ai piedi”.

E vi siete messi a volare?

In un certo senso sì: non sappiamo come fosse possibile, ma nonostante la stanchezza abbiamo corso i 7 chilometri di discesa nel “bosco di fango” ad un ritmo impensabile per me, superando concorrenti, saltando radici, schivando sassi e alternandoci in testa per determinare il passo con continui rilanci.

È stato divertentissimo!

Non pensavo mi fosse umanamente possibile correre ancora con più di cento chilometri nelle gambe.

E siete riusciti ad arrivare prima del buio?

Sì! Dopo un’ora di corsa lanciati in discesa furiosa, siamo finalmente usciti dal bosco e abbiamo imboccato la strada asfaltata nei pressi della casa dove alloggiavo: “Ancora 2 chilometri e mezzo di bitume: ormai è fatta!” dissi a Giuseppe e aggiunsi “Come vuoi tagliare il traguardo?”
“La mia famiglia mi aspetta a Cortina: ho promesso a mio figlio di arrivare tenendolo per mano” mi confessò con un po’ di imbarazzo perché sapeva che avremmo anche potuto tagliare il traguardo insieme, come avevo fatto con Silvia e Bicio nella mia gara precedente.

E tu ci sei rimasto male?

Neanche per sogno: avevamo fatto un viaggio epico insieme, ma

Il traguardo dovevamo godercelo tutto da soli.

Entrati a Cortina mi disse di andare avanti mentre lui avrebbe cercato la sua famiglia tra la folla. La mia famiglia invece era fisicamente a casa, ma li avevo tutti nel cuore.

La cittadina era gremita di gente che applaudiva e incitava i trail runner agli ultimi metri della loro fatica: “Dai che è finita!” ,“Bravo Simone!”, “Grande Simone!”…

Come facevano a sapere il tuo nome?

Era scritto sul pettorale!
Incrociai anche alcuni concorrenti arrivati ben prima di me che stavano risalendo il viale, raccontando ad amici, mogli o fidanzate come fosse andata la loro avventura e tra questi sai chi vidi?

Matteo!

Esatto! Lo avevo perso di vista tanti chilometri prima e lo ritrovai prima dell’arrivo: “Vai Simone! Ce l’hai fatta!”
Percorsi gli ultimi metri facendo l’aeroplano e dando il cinque ai bambini che si sporgevano dalle transenne, quando finalmente vidi l’arco dell’arrivo!

Con le mani al cielo, gli occhi lucidi e un gran sorriso tagliai il traguardo, poco dopo le nove e un quarto di sera.

E c’era ancora luce.